29 Lug La lesione del tendine d’Achille
È una patologia molto frequente in ambiente ortopedico-fisiatrico, semplice da descrivere, ma difficile da trattare, per questa ragione va affrontata con un approccio multidisciplinare, a partire da una corretta diagnosi e con una terapia che nella maggior parte dei casi è di tipo chirurgico e conduce a buoni risultati.
Il tendine d’Achille è il tendine più lungo e più forte del corpo umano. Eppure, sovente, tra gli sportivi, ma non solo, può andare incontro a processi degenerativi dei tessuti che rendono il tendine più vulnerabile e soggetto a lesione: l’evento, a volte, è asintomatico o perlomeno non immediatamente riconoscibile dal paziente che ne è affetto; in altre circostanze, invece, è traumatico e subito trattato.
In tutti i casi, la lesione del tendine d’Achille è sempre invalidante, perché quando si presenta impedisce al paziente di camminare, di correre e saltare, cioè di svolgere le più comuni attività quotidiane e a maggior ragione qualsiasi attività sportiva.
Il trattamento di questa patologia interessa diverse figure sanitarie: l’ortopedico, il fisiatra, il fisioterapista, ma anche il tecnico sanitario e il podiatra, come spiega Umberto Alfieri Montrasio, responsabile dell’Unità Specialistica Piede-Caviglia dell’Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, l’esperto cui abbiamo chiesto aiuto per descrivere nel dettaglio le peculiarità di questa lesione tendinea, la più frequente dopo la lesione del tendine quadricipitale e quella della cuffia dei rotatori della spalla.
La struttura del tendine
Il tendine d’Achille è un tendine poco vascolarizzato.
«È costituito da un tessuto connettivo altamente specializzato», spiega Umberto Alfieri Montrasio, «con un basso metabolismo e poche cellule. Il tendine d’Achille non è un tessuto statico: al contrario, la sua struttura è particolarmente dinamica e soggetta a un continuo rimodellamento, in funzione di come viene usato, per esempio delle forze di carico cui può essere interessato.
Il tessuto di questo tendine è poi soggetto a meccanismi cellulari ed extra cellulari, cioè a meccanismi molecolari, di enzimi che sono principalmente proteine, che generano una matrice extra cellulare prevalentemente composta da acqua e da fibre collagene».
Ci sono poi fattori genetici che possono intervenire sul meccanismo degli enzimi. «Le alterazioni geniche della matrice possono portare a un cambiamento dell’omeostasi, a un’alterazione dei tendini e quindi», dice Umberto Alfieri Montrasio, «a una degenerazione dei tessuti che in alcune circostanze conduce alla lesione del tendine».
La lesione
«Chiariamo subito un fatto», dice Umberto Alfieri Montrasio, «escludendo la lesione da ferita, da taglio o come conseguenza di un incidente stradale, la lesione del tendine d’Achille è sempre causata da una patologia del tendine, da un’usura dei tessuti, molto frequente nei soggetti over 50.
Solitamente, la lesione ha come sede principale il corpo centrale del tendine, il terzo medio, una zona poco vascolarizzata che tende a danneggiarsi nella parte finale di inserzione, dove il muscolo si tramuta in tendine che sollecitato dai movimenti obliqui e dalla contrazione massima del muscolo nella torso-flessione, cioè il movimento della caviglia che consente di avvicinare il piede alla gamba, può subire un danno».
La diagnosi
A volte è il paziente stesso a farla, spiegando ai medici del pronto soccorso di aver subito un trauma mentre praticava dello sport.
«Il paziente racconta di avere sentito come una frustata dietro di sé», spiega Umberto Alfieri Montrasio, «come se venisse colpito da qualcosa, invece è il sintomo più comune di una lesione del tendine d’Achille che può essere molto dolorosa.
Poi, però, ci sono i casi in cui il paziente non si accorge del problema e giunge all’attenzione del medico solo dopo diverse settimane, con per la lesione, ma per la rottura del tendine che a questo punto è diventata completa».
La diagnosi clinica è piuttosto semplice.
«Si va a posizionare il paziente prono», spiega Umberto Alfieri Montrasio, «dopodiché si va a stimolare il polpaccio, alla ricerca del cosiddetto segno di Thompson: se la caviglia non si muove, vuol dire che il tendine è rotto.
Per avere maggiori informazioni sulla lesione, è sempre consigliabile effettuare una radiografia, perché sovente la rottura non è del tendine vero e proprio, ma dell’osso del calcagno dove il tendine si inserisce, una rottura causata da una forte tensione del tendine che finisce per strappare l’osso.
Tuttavia, anche da un’ecografia correttamente eseguita è possibile ravvisare i segni della lesione che, come detto, per fortuna spesso è solo parziale».
Terapia chirurgica e non chirurgica
Il trattamento incruento, dunque non chirurgico, è stato pressoché abbandonato.
«Consiste nell’applicazione di uno stivaletto con una “caviglia in equino”, che induce quindi il paziente a tenere il piede abbassato verso il terreno», spiega Umberto Alfieri Montrasio, «posizione che consente al tendine di rimanere in uno stato di riposo e di potersi rigenerare da solo.
Tuttavia il trattamento incruento porta a una percentuale di ri-rottura del tendine importante, perché il tendine rimane elongato, avendolo fatto guarire “in equino di caviglia” e il muscolo indebolito, meno forte, ecco perché oggi è preferibile la terapia chirurgica, anche se, è giusto ricordarlo, in letteratura ci sono autori che stanno riproponendo questo trattamento non chirurgico».
La scelta chirurgica, invece, può essere di due tipi: aperta o mininvasiva che è ormai quella di scelta.
«Si utilizza ancora la chirurgia aperta, invece», spiega Alfieri Montarsio, «nel trattamento tardivo delle lesioni, tardivo perché il paziente, per esempio, è in vacanza o sottovaluta i sintomi e giunge alla nostra attenzione dopo diversi giorni o settimane.
In questi casi il tendine lesionato o rotto, trattandosi di un tessuto elastico, può essersi ritirato e per poterne riavvicinare i due capi si deve ricorre alla tecnica aperta per posizionare i punti di sutura: la tenorrafia può portare alla guarigione, ma anche a diverse complicanze che possono riguardare sia la ferita che guarisce male sia possibili adesioni tra cute e tendine, oppure infezioni, sino alla ri-rottura del tendine».
La tecnica mininvasiva è detta anche trattamento chirurgico percutaneo, «perché per eseguirla», spiega il clinico dell’Istituto Ortopedico Galeazzi, «si praticano quattro opercoli, due prossimali e due distali attraverso i quali, con un ago, si esegue una tenorrafia mininvasiva, la cui correttezza può essere verificata con alcune manovre cliniche.
Per assicurarsi che il tendine sia stato suturato bene, si può anche eseguire una piccola incisione a livello della lesione e dare ulteriori punti di sutura nel corpo tendineo».
L’intervento dura dai 30 ai 45 minuti, sino a un massimo di un’ora nei casi più complicati. «Si esegue sottoponendo il paziente ad anestesia loco-regionale e non comporta particolari complicanze, anche se, trattandosi comunque di un intervento chirurgico, seppur mininvasivo», ricorda Alfieri Montrasio, «può essere anch’esso soggetto a infezioni, a ematomi o causare lesioni del nervo surale, un’evenienza quest’ultima, più frequente, a dire il vero, nella chirurgia aperta.
Infine, anche la tecnica percutanea non è infallibile e definitiva perché il tendine operato può sempre andare incontro alla ri-rottura».
La fase post-operatoria
Il trattamento della lesione del tendine d’Achille richiede un approccio multidisciplinare.
«Ci vuole collaborazione tra l’ortopedico, il fisiatra e gli altri operatori sanitari, non ultimo il medico dello sport», dice Umberto Alfieri Montrasio, responsabile dell’Unità Specialistica Piede-Caviglia dell’Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, «dato che per uno sportivo, soprattutto se professionista, questa lesione può essere molto grave, tanto da comprometterne la carriera.
Dopo l’intervento al paziente viene applicato un tutore, posizionando la caviglia a 90 gradi, anche se c’è chi preferisce posizionarlo a 20 gradi di equino».
Qualcuno utilizza il gesso: tutti comunque prescrivono le stampelle e una terapia anticoagulante per circa sei settimane.
«Nelle prime tre – ed è questo il vantaggio del tutore rispetto al gesso – si può togliere il dispositivo e iniziare a muovere leggermente la caviglia, per poi, nelle settimane successive, sotto la guida di un fisioterapista, iniziare a fare degli esercizi per la caviglia e il ginocchio».
Normalmente, dopo l’intervento chirurgico, non sono necessari indagini diagnostiche, neppure per verificare lo stato di integrità dell’altro tendine che di solito è sano, contrariamente a quanto possa immaginare o temere il paziente.
«Nei casi dubbi o più difficili, invece, si può sottoporre il paziente a ecografia o a risonanza magnetica».
Nel caso di una ri-rottura del tendine, la terapia di scelta è la chirurgia aperta.
«Si deve eseguire una lunga incisione e poi decidere se eseguire il ribaltamento del tendine o i cosiddetti trasferimenti tendinei che consistono nel prelevare parti di altri tendini del corpo (ad es. FLD) del paziente e trasferirli appunto nel tendine d’Achille danneggiato».
Oltre agli integratori alimentari specifici, che aiutano la rigenerazione dei tessuti del tendine, ci sono anche altre terapie utili ad affrontare la lesione del tendine d’Achille.
«Si possono impiegare i fattori di crescita», dice Umberto Alfieri Montrasio, «oppure le cellule staminali: nel nostro Istituto, per esempio, abbiamo fatto una sperimentazione con le cellule adipose prelevate dall’addome e poi, dopo adeguato trattamento (cellule staminali), infiltrate nel tendine, con risultati buoni e incoraggianti».
Tendinopatia cronica, anticamera della lesione
Come già detto, la lesione del tendine d’Achille è secondaria a un problema di cui è affetto il paziente, anche inconsapevolmente.
«La tendinopatia cronica può essere l’anticamera della lesione del tendine d’Achille», afferma Umberto Alfieri Montrasio, responsabile dell’Unità Specialistica Piede-Caviglia dell’Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano.
«Per questa ragione è importante non trascurare una tendinopatia al punto di farla diventare cronica. Per trattarla si possono usare gli antinfiammatori e la crioterapia, cioè la terapia del freddo che si attua mettendo del ghiaccio sulla parte infiammata, ma anche le onde d’urto, un altro trattamento utile per affrontare questa patologia».
La tendinopatia, così come la lesione del tendine d’Achille origina da molti fattori, anche di tipo genetico o ambientale.
«Le persone di colore, per esempio, hanno una percentuale di fibre maggiore rispetto al resto della popolazione», dice l’esperto dell’Istituto Ortopedico Galeazzi, «ecco perché si ammalano meno di questa patologia e tra loro ci sono i migliori sprinter e mezzofondisti, atleti di grande valore come Usain Bolt, per esempio, l’uomo più veloce del mondo».
Pierluigi Altea
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